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Asghar Farhadi (2011) 123 minuti - info
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Una separazione

Il film comincia con la richiesta di Simin di divorziare dal marito Nader perché l’uomo, per assistere il padre malato d’Alzheimer, ha deciso di rimanere in Iran anziché espatriare con la moglie e la figlia di undici anni. sembra che I due si amino ancora, ma per ripicca Simin si trasferisce dai genitori, lasciando soli la figlia e il marito con l’anziano malato. Nader è costretto ad assumere una badante, Riazeh, una donna incinta che lavora di nascosto dal marito, rigido osservatore della Shari’a. Un giorno Riazeh lega l’anziano al letto e si allontana. Nader ritorna con sua figlia e trova il padre col braccio legato al letto, caduto a terra in stato di shock. Quando la badante rientra, senza giustificare la sua assenza, Nader, furioso, la allontana, spingendola fuori dalla porta. La sera stessa viene a sapere dalla moglie che Riazeh è in ospedale e ha perso il bambino. Successivamente viene denunciato e accusato di averne causato la morte, avendola fatta cadere sulle scale. È l’inizio di una guerra di tutti contro tutti, giocata in tribunale, tra menzogne e ipocrisie. A farne le spese la figlia piccola di Riazeh che osserva tutto e si esprime attraverso i disegni, e la figlia adolescente di Simin e Nader, Termeh, a mio avviso vera protagonista del film, che soffre e spera fino all’ultimo nella riconciliazione dei suoi genitori.

Con Una separazione l’iraniano Asghar Farhadi ha meritato un Orso d’oro a Berlino e un Oscar nel 2012 come miglior film straniero. Le recensioni elogiano la capacità del regista iraniano nell’essere riuscito ad ovviare la censura nascondendo un problema sociale e religioso dietro ad un dramma quotidiano e universale.
La realtà che mette in scena è presentata senza giudizio, attraverso i diversi punti di vista dei personaggi, ognuno dei quali vive un dramma all’interno delle mura domestiche, nelle relazioni, con ragioni e torti aggravati da una situazione culturale religiosa e sociale come quella dell’Iran di oggi nella cui capitale la vicenda è innestata. Non è però un film di denuncia politica, anzi, questo giudizio è lasciato allo spettatore, bensì la messa in scena di una vicenda familiare che potrebbe essere quella di tante famiglie dove si vive il dramma dell’incomprensione, delle fatiche quotidiane, della mancanza di ascolto profondo delle necessità e del punto di vista dell’altro…
È un film asciutto, a tratti angosciante, dai dialoghi e dalle scene essenziali e ben calibrati, che mette in scena una situazione drammatica fatta di piccoli avvenimenti quotidiani e relazioni umane che piano piano precipitano  sempre più verso il baratro, dove ogni punto di vista risulta credibile, ogni ragione inappellabile, ogni torto marcio. E dove la giustizia che deve condurre alla soluzione e alla verità risulta imparziale, certo, ma sterile e impotente  di fronte ai casi umani (tanto che Nader si troverà a dire alla figlia:“la legge non capisce queste cose”).
Il tutto filtrato attraverso gli sguardi innocenti delle figlie delle due famiglie in causa nei cui occhi si legge il dolore e l’impotenza di fronte agli atteggiamenti degli adulti  che non sanno ascoltarsi, non sanno andare oltre il proprio orgoglio e le proprie ragioni per le quali lottano senza tenere conto degli interessi anche degli altri ricorrendo talora a menzogne o a mezze verità. 
La figura che mi ha colpito maggiormente è il padre, Nader, perché, non ostante lotti come gli altri per i propri interessi e non riesca a guardare alle richieste della moglie, mi sembra abbia una sua rettitudine e non perda di vista i suoi doveri e le necessità degli altri: Intercede per il marito di Riazeh che il giudice vuole imprigionare, è attento ai bisogni del padre, aiuta la figlia non solo a scuola ma anche insegnandole ad emanciparsi. Di contro non fa nulla per comprendere le esigenze della moglie, una donna fin troppo facile ad arrendersi, o quantomeno a sforzarsi di capirla. Significativa è anche la presenza muta ma imponente del vecchio padre malato, che se da un lato sembra essere la causa di tutte le situazioni che si vengono a creare, in realtà è quasi un monito, denuncia della verità dell’ipocrisia di tutte le relazioni che gli ruotano attorno.  
Il lacerante finale, che giustifica ancor più profondamente il titolo, lascia amarezza e dolore, e anche una certa rabbia, di fronte ad un dilemma radicale che non può accontentarsi di risposte consolatorie.

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Maria Silvia e Paolo Moro