Article

Leggi gli altri articoli
Leggi gli altri articoli

L’amore ha bisogno di spazi generativi d’intimità

“Vieni, amato mio, andiamo nei campi” Ct 7,12

Ct 7,1-14
I primi 10 versetti del capitolo 7 del Cantico, sono intrisi di ammirazione verso la bellezza unica che è la donna, pensata da Dio proprio perché possa riempire la vita dell’uomo, ed essere un richiamo continuo al dono di felicità offerto da Dio. È una contemplazione che parte dagli occhi, che fa godere dello spettacolo che è il corpo femminile, bellezza pura che fa gioire l’uomo, come Dio gioì alla creazione dopo averli creati: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31). Quanto cammino abbiamo ancora da fare, anche come chiesa, rispetto a queste parole… “Vide quanto aveva fatto … Cosa molto buona”, riferite al rapporto uomo - donna, non certamente come l’abbiamo inteso in passato e ancora molti lo intendono ancor oggi, ossia come un’esperienza umana da tener sotto controllo con norme e codici morali, e proprio perché carnale, considerata non di speciale consacrazione, come invece sono valutate altre vocazioni nella chiesa, esperienza lontana dal religioso e dall’essere spirituale. Allora, quasi per convertirci, il testo continua poi con un lungo elenco che passa da una parte all’altra del corpo della donna, quasi come un viaggio alla scoperta meravigliosa dell’alterità diversa e quindi complementare, solo luogo privilegiato di felicità e completezza. E quindi si parte dai piedi per salire verso i fianchi perfetti come un’opera uscita dalle mani dell’Artista. E saliamo, per trovare l’ombelico, che si potrebbe intendere usato come termine eufemistico di “pube”, la parte del corpo che può essere descritta come una mezza luna, (TOB)[1] come veniva rappresentato il sesso femminile nelle statue di donne senza veli nel Medio Oriente. La mezza luna d’oriente che richiama la fertilità. E via via si va su, saliamo come verso il paradiso, verso Dio, passando per il ventre, i seni, il collo, con l’ammirare i vari elementi del viso e del capo. Arrivati in cima, davanti a Dio, l’esclamazione di stupore e gratitudine: “Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, piena di delizie”, come una volta arrivati alla cima della montagna si ha un tuffo al cuore e si esclama tutta la meraviglia che non si può spiegare a parole.

Vieni, amato mio, andiamo nei campi” Nei versetti 12-14, la parola passa alla sposa. La frase “Amato mio” apre e chiude questi versetti. La fioritura della natura che esplode nei campi e nella vigna, immagine ripresa più volte anche da Gesù nei Vangeli, si concretizza con la comparsa dei frutti. Si apre il tempo dell’amore, la relazione esige ben presto di passare dal tempo della promessa a quello della realtà condivisa e offerta. “Vieni amato mio …” L’amore ha bisogno di tempi di intimità gratuita, non può essere per sempre oppresso dalle preoccupazioni del quotidiano. Abbiamo necessità di tempi di distensione reciproca, da vivere insieme per vedere se in noi sbocciano i fiori, se ai melograni, che rappresentano la nostra relazione, spuntano le gemme feconde che rinnovano il nostro amore. Servono momenti di intimità per cogliere i frutti! Tempi di incontro rilassato tra noi, dove cogliere la bellezza e il gusto della vita assieme, la gioia dell’incontro vero, solo “là ti darò il mio amore” Ct 7, 13. Lontani dalla confusione frenetica che ci toglie la voglia di parlare di noi all’altro/a, che ci riempie di parole inutili, a volte volgari e vuote, che rende il nostro amore svuotato di significato. C’è un invito che ci viene rivolto, quasi supplicato: “Vieni, amato mio” che assomiglia molto a quel: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'” (Mc 6, 31). La sposa prende per mano il suo sposo e lo conduce con delicatezza e tenerezza nella campagna, segno del desiderio di stare assieme, da soli e rigenerarsi donandoci vita reciprocamente, come quando si condivide e si spezza del pane fresco e profumato. 

Le mandragore mandano profumo alla nostra porta ci sono tutti i frutti più squisiti, conservati per te”. Siamo invitati come amanti, ad assaporare ciò che abbiamo attorno a noi: un sorriso mattutino, la soddisfazione di vedere i nostri figli felici, un gesto semplice di aiuto reciproco e di attenzione, un’occasione dove donarci il perdono, una parola scherzosa che accende sorrisi semplici e simpatici. I frutti squisiti sono tutto ciò che siamo e offriamo all’altro/a, ciò che personalmente abbiamo portato e portiamo nel nostro rapporto e naturalmente tutto ciò che assieme abbiamo e stiamo costruendo. Niente si deve buttare, tutto si deve conservare perché tutto viene custodito per l’amato/a, perché l’amore che ci doniamo diventi ancora più forte. Ad un certo punto, questi frutti squisiti vengono definiti “freschi e secchi”, nuovi e vecchi, segno della capacità di chi ama di rinnovare sempre il rapporto con la capacità di rigenerazione ricordata sopra, che permette all’amore di durare attraverso le diverse stagioni della vita. La vite, pianta che può essere molto longeva, viene menzionata più volte nel testo, forse per ricordarci che come il nostro amore anch’essa ha bisogno di molta cura, coltivata con amore e pazienza essa dà frutto abbondante. Il testo ribadisce ancora che la durata e la rigenerazione del rapporto d’amore non vengono in nessun modo dal caso o per fortuna, ma sicuramente dal risultato di un lavoro impegnativo di cura, dedizione e sacrificio generoso l’un per l’altra.

Pregate assieme uno di questi salmi: 19 o 85. Lodate e benedite il Signore.



[1] Nota W al cap. 7, 3, pagina 1548, della bibbia TOB
Lorella e Bruno Nardin