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Spiritualità dell’accoglienza – 3. Appartenersi tra creature

Negli scorsi interventi, dicevamo che la spiritualità non è una serie di pratiche religiose, ma è il ‘modo di essere al mondo’ di una persona abitata dallo Spirito di Gesù Risorto, grazie al battesimo. Questo ‘modo di essere’ è quello di Gesù, il modo dell’amore irrevocabilmente donato che, negli sposi, ha iniziato a prendere forma nel sacramento: ciascuno dei due può diventare sposo alla maniera di Cristo. Abbiamo qualificato la spiritualità degli sposi come ‘dell’accoglienza’ perché la loro nuova identità si radica sul dono di Dio, ma anche perché la loro identità si esprime e si struttura nell’esercizio dell’accoglienza del coniuge, in continuità con l’espressione rituale: “io accolgo te”. 


Riscoprirsi creature. Il rito tuttavia consiste anche nell’ascoltare dall’altro le stesse parole ‘io accolgo te’ che, in quel momento, vedono colui che ascolta in una posizione di passività e lo chiamano a credere a ciò che ascolta, acconsentendo a lasciarsi accogliere come una creatura. Dobbiamo ammettere che facciamo fatica ad accogliere la nostra creaturalità di viventi che non possiedono in se stessi la vita, ma che l’hanno ricevuta e che continuamente si trovano nella condizione di doverla ricevere. 
Appartenenza. La nostra vita, infatti, è legata alla possibilità che abbiamo avuto di appartenere a qualcuno, ai genitori, ad una famiglia, ad un contesto sociale, ad una rete di relazioni e di persone che ci hanno accolto e si sono prese cura di noi. Qui emerge il secondo e fondamentale significato della memoria del battesimo: da quel momento apparteniamo al Padre e, come figli adottivi, abbiamo in eredità la sua vita immortale, proprio noi che, al pari delle altre creature, abbiamo come orizzonte biologico la morte.
Se in un primo momento possiamo avvertire gioia e commozione a questo annuncio, la ferita del peccato ci fa sospettare che essere ‘di qualcuno’ sia, infine, un vincolo troppo stretto che comprime la nostra libertà. Come Adamo, che preferisce definirsi in un’autonomia dal Creatore e che, rifiutandolo, rifiuta il proprio essere creatura, così da non doversi giocare in alcuna reciprocità.
Ma il corpo ricorda che l’autonomia è un’illusione. Anche la morte ci attesta che non possiamo darci o anche solo conservarci la vita da soli, nemmeno vivendo in modo irreprensibile. 


Due strade. Davanti all’evidenza della propria fragilità, davanti al crollo dei tentativi di perfezione e di autosufficienza, si profila davanti a sé un bivio: o la strada triste e orgogliosa della delusione e dell’abbandono di sé ad una fragilità in cui consumarsi, oppure la strada umile e feconda della consegna di sé nelle mani di un altro, accettando la sua accoglienza fragile e limitata, in cui ritrovare la propria identità come colui che esiste ricevendosi dall’altro. È il cuore del rito del consenso, perché «un vero amore sa anche ricevere dall’altro, è capace di accettarsi come vulnerabile e bisognoso» (AL 157).


Si apre la possibilità di essere amati per come siamo, con tutti i limiti e le ferite ancora vive, che trovano ora nell’accoglienza amante dell’altro, lo spazio adeguato per emergere alla luce e per essere curate e riconciliate. Dentro questa esperienza sponsale risuona l’appello a credere all’accoglienza fondamentale di Dio che ha mandato suo Figlio a morire per noi, mentre ancora eravamo peccatori: “se una persona come me ha deciso di accogliermi del tutto, quanto più intensamente mi ha accolto il mio Creatore?”
Don Tiziano Rossetto