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Spiritualità dell’accoglienza – Io accolgo te

Spiritualità non è una ‘cosa da fare’ ma è una condizione, cioè un modo di esistere in cui siamo stati posti attraverso il battesimo: abitati dallo Spirito di Cristo che in noi dice ‘Abbà, Padre’ (Gal 4,6), siamo figli di Dio, posti in un legame di amore con Lui. La spiritualità, dunque, non ha l’obiettivo di aggiungere qualcosa alla vita ‘umana’, ma mira ad esprimere, nella concretezza dell’amore, la bellezza della nostra nuova identità, quella donata dal Padre e ‘attivata’ grazie allo Spirito Santo e perciò ‘spirituale’. Per questo il rito del matrimonio inizia con la memoria del battesimo. Dicevamo che essere figlio di Dio è il Dono che apre l’avventura della fede in quanto chiede di essere creduto, accolto e rischiato.


L’amore coniugale è un luogo prezioso e benedetto in cui i figli di Dio possono conoscere la potenza che è stata aperta dal Dono, proprio mentre vi si lasciano coinvolgere più a fondo e definitivamente. Vediamo come.


Nello sguardo dell’amante. Un’illusione frequente è quella di pensare che ciascuno possa conoscersi interamente da sé, come allo specchio, prima dell’incontro con l’altro. Gli innamorati scoprono, invece, che le cose sono andate diversamente: ciascuno ha intuito la propria bellezza e amabilità proprio quando si è visto specchiato nello sguardo inspiegabilmente accogliente dell’altro. «Quando si è innamorati, si vede l’altro così come lo vede Dio, perché si guarda con amore, insieme a Dio che è amore. Ma l’altro non è ancora così nella sua storia», e presto risulta evidente. «La sua concretezza è ancora permeata dall’egoismo», ma quella verità che l’innamorato ha intuito, si radica nel cuore come un appello che risuona con la voce dell’amato: «Tu sei l’unico che mi vede così, ma così io non lo sono ancora. Te la senti di impegnarti con me affinché io diventi in tutto ciò che tu hai visto in me?» (M.I. Rupnik, Il costato di Adamo).  


Quando gli sposi nel rito si dicono: ‘io accolgo te’, lo fanno con questa intenzione, dando credito alla memoria di quell’intuizione di bellezza e amabilità che l’amore ha reso visibile nel volto dell’altro.


Una nuova identità. La formula ‘io accolgo te’ non è semplicemente una dichiarazione da tradurre poi in una serie di azioni coerenti. Dicendo ‘io accolgo’, metto in gioco innanzitutto la mia identità accettando di prendere una nuova forma, la forma dell’accoglienza: in quell’accolgo, cioè, io sono costituito sposo.


L’accoglienza dello sposo lascia l’altro libero di farsi accogliere, consegnandosi gradualmente quanto riesce e quanto desidera. Lo lascia libero soprattutto di essere così com’è, e non come io avrei bisogno che fosse; infatti egli «mi ama com’è e come può, con i suoi limiti, (…) e non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità» (AL 113). 


Vedremo in seguito quali esperienze concorrano a sviluppare un modo di essere come accoglienza, in particolare la riconciliazione con la propria creaturalità e con la propria storia.
Don Tiziano Rossetto